Giacomo Alligo presenta “L’Imperfetto”

Giacomo Alligo presenta “L’Imperfetto”

Dicembre 12, 2024 Off Di Redazione

Fin da bambino, la ragione di vita di Jack è diventare il migliore scrittore di tutti i tempi. Sulle orme del padre Victor, geniale inventore che crede scomparso per sempre, si ritrova a inseguire un’ossessione folle, prendendo spunto da quell’uomo che aveva rovinato la sua vita e quella del figlio cercando di creare Dio. Ad accompagnarlo in questo viaggio ci sarà Eric, personaggio che vive ormai da anni nella sua mente e che sembra prendere il sopravvento nei momenti di minore lucidità.

È questa, in sintesi, la trama del romanzo L’imperfetto di Giacomo Alligo, edito dai tipi di bookabook e pubblicato lo scorso 28 novembre.

D: L’imperfetto è il primo libro di Giacomo Alligo, giovanissimo autore che si cimenta in una storia apparentemente molto semplice ma dai tratti surreali. Abbiamo incontrato Giacomo per fargli qualche domanda.

Partiamo da una frase che tu scrivi: “E va bene. Sognare non fa male.” Cosa significa per te sognare?

R: Per il Jack bambino protagonista del libro, arso dal desiderio di diventare il migliore tra gli scrittori, a cui questa frase è rivolta, sognare equivale a un velleitario e inconcludente vagheggiare, incompatibile con la realizzazione di qualunque progetto. Se un tempo anche per me assumeva una connotazione simile (sono cresciuto leggendo manuali di scrittura, e uno degli autori più famosi in questo campo, Robert McKee, in Dialoghi è chiaro a tal proposito: “La creatività non è guardare fuori dalla finestra sognando ad occhi aperti. Le scelte estetiche diventano vive solo sulla carta”), adesso significa avere la forza di continuare a lavorare con fiducia, nonostante le difficoltà e a prescindere da quanto accadrà in seguito; è, se vogliamo, “sustanza di cose sperate / e argomento de le non parventi”. Allo stesso tempo, indica la capacità di immaginare altre realtà, fondamentale nel modellamento sia delle storie di finzione sia della vita, di una vita che non si appiattisca sullo status quo ma che lo metta continuamente in discussione e sappia contemplare delle alternative.

D: Cosa ti ha spinto a scrivere questa storia?

R: “Motivazioni (come si dice? esistenziali?)”. A parte gli scherzi, ormai tre anni fa, mentre stavo scrivendo un romanzo distopico, poi abbandonato, ho incontrato la ragazza che ha stravolto la mia vita: come vuole la trita parabola dell’amore non ricambiato, ho trascorso mesi d’agonia culminati, due estati fa, nella stesura di questo libro. In esso è confluito, durante il periodo più bello che abbia vissuto, tutto ciò che so, sento e sono. È stato più di una salvezza per me: è stato il centro di un’intera esistenza, l’evento che ha recuperato e giustificato in retrospettiva gli anni dell’infanzia e dell’adolescenza e trasformato un misantropo pessimista e risentito in un incurabile amante degli esseri umani, delle loro bugie particolari e delle loro verità universali. Credo che raccontare il tempo di composizione del romanzo sarebbe molto più difficile che scriverlo, ma confido nella certezza che ognuno di noi ha vissuto un momento perfetto, imparagonabile a qualunque altro: ecco, questo è stato il mio.

D: Il nome del protagonista, Jack, richiama il tuo: quanto di te c’è in lui e nella sua storia?

R: Qualcosa è reale e tutto è vero. Jack, anche se più vicino a “Giovanni” che a “Giacomo”, è il soprannome che quasi tutti i miei amici mi hanno affibbiato, a sottolineare l’importanza – in senso positivo – di chi ci sta intorno nella formazione della nostra identità. La storia nasce da una vicenda personale, perciò molti tratti del protagonista (e di altri personaggi) sono autobiografici; non ho tuttavia una doppia personalità né un padre ossessionato e almeno la metà delle figure del romanzo non trova collegamenti diretti con persone che conosco. Ogni storia, per non scadere nel solipsismo ingenuo, necessita di innumerevoli fonti esterne e distinguere cos’è letteratura e cosa realtà è spesso impossibile. In fondo però è bene conservare l’autonomia del testo, valido o meno in base alla precisione, appropriatezza e complessità delle sue leggi interne e alla profondità dei suoi abitanti, per quanto biografia e contesto storico siano strumenti utili per comprenderlo (se non sfocia in riduttive operazioni di psicanalisi e sterile storicizzazione) e a lettori e lettrici non dispiaccia curiosare nell’intimo dello scrittore per scorgere il “lato personale” della sua opera.

D: Scrivi anche: “C’è un demone dentro ognuno di noi. Più cresciamo, più lui cresce.” Questo demone è Eric?

R: Senza dubbio: l’alter ego di Jack è il demone per eccellenza, Eric è “colui che regna in eterno” e Tymor, il suo cognome, può suonare come “timore” o come “tumore” (tumor in latino significa sia “gonfiore” sia “tracotanza”) ed è poi un rimando a Tyler, il malvagio doppione superomistico – spoiler! – del narratore e protagonista di Fight Club, il cui nome, tra l’altro, non è mai pronunciato ma che secondo una teoria potrebbe essere Jack… Il demone, tuttavia, è anche l’avversario ultimo che ognuno di noi contiene, un misto tra chi pensiamo di voler essere, chi avremmo potuto diventare, chi non sappiamo di essere e chi temiamo di diventare; insomma, un misto tra un ideale distorto, una versione impossibile, l’ombra junghiana e, infine, la pulsione di morte freudiana. Il legame tra questa e l’altra parte della nostra identità segna ogni stadio del rapporto tra Eric e Jack e di tre personaggi che sono riusciti a superare la propria autodistruttività in tempo o troppo tardi oppure che ne sono stati annientati.

D: Qual è l’aspetto che vorresti cogliesse il tuo lettore ideale?

R: Ogni scrittore ha in mente un lettore/lettrice modello per cui inventa la storia; in assenza di un’enciclopedia culturale condivisa da tutti, i piani di lettura servono a cercare di soddisfare sia i casual sia gli abituali.

Nel mio caso, la richiesta è elementare ma, ritengo, fondamentale, più di metodo che di contenuto: vorrei un lettore dubbioso, che si interrogasse sul significato di quel capitolo, di quella frase, di quella lettera, fino a giungere al senso dell’intero romanzo. In ciò i feedback ricevuti mi rincuorano: il commento più frequente è stato “Bisogna leggerlo con attenzione”, il miglior complimento che potessi desiderare. Penso, e questa è forse la mia convinzione più radicata, che neanche la scienza, la religione o la filosofia siano capaci quanto la narrazione di toccare le profondità della realtà umana, di aiutarci ad esplorarle e, così, farci sentire meno soli e impotenti, e un pubblico filologico (non certo nel senso di preda del “sonno grammaticale”, ma di “amante della parola”) e scrittori che nutrono fiducia e rispetto nei suoi confronti sono alla base di quel meraviglioso viaggio che può essere la lettura.

D: Come hai affrontato il processo creativo e poi quello, più tecnico, legato alla scrittura?

R: Domanda difficile: non si tratta, ovvio, né di furor poeticus né di regole preconfezionate applicate senz’anima, ma di sentimento e pianificazione, il primo è il fiume, la vita della storia che sgorga dai bisogni di chi scrive, il secondo è il letto e gli argini, che evitano deviazioni e traboccamenti involontari.

Le tecniche sono infinite, servono anni per perfezionarle e, soprattutto, una buona mente per guardarle “dal di dentro”: qualsiasi principiante conosce a memoria setup e payoff, desire e need, le fasi del viaggio dell’eroe e il subplot, eppure c’è un abisso tra questa approssimativa rete analitica e l’infinita potenza di un Levi o di un Sartre. Nessun modello è un paradigma, nessuna linea guida una regola: è un paradosso, ma più si scrive e meno criteri prescrittivi si hanno, si può davvero raccontare tutto in qualsiasi maniera; ogni scrittore e scrittrice ha il diritto e il dovere di ascoltare il mondo e imparare l’arte per assecondarle al proprio unico e irrepetibile modo di narrare la realtà. È questo, se dovessimo sceglierne uno, il tema del mio romanzo: la molteplicità con cui ciascuno si approccia alla scrittura e cresce con essa.

D: Quale autore ti ha ispirato nella storia o nel desiderio di diventare scrittore?

R: È stata la professoressa di italiano delle medie a spingermi a leggere – in quel caso Ammaniti. Invento storie da quando ero piccolo (la primissima è stata, almeno nelle intenzioni, un “rifacimento” di tre pagine de La guerra dei mondi, anche se somigliava più a una generica e aporetica storia d’invasione aliena), ma solo allora mi sono cimentato nella stesura di un romanzetto di formazione, che ho poi regalato ai miei insegnanti dopo l’esame di terza media. Da allora la passione non si è più spenta.

Prima di scrivere L’imperfetto i miei autori/autrici preferiti/e erano Goethe, Shelley (Mary, ma anche Percy), Manzoni, Dostoevskij, Pirandello, Orwell e Borges; evidenti sono poi le influenze di Dante, Shakespeare, Balzac, Melville, Ende, Palahniuk e, sul piano filosofico, Socrate, Platone, Aristotele, Schopenhauer, Kierkegaard, Nietzsche, Weber, Frankl… La prima parte del romanzo riguarda proprio “l’angoscia dell’influenza” che Jack prova nel tentativo di uscire dall’ombra dei giganti che l’hanno preceduto – o, per usare un’immagine celeberrima ma sempre efficace, salire sulle loro spalle per vedere un po’ più lontano. Non so se ci sia riuscito, “ma ha conosciuto sé stesso, ha conosciuto il mondo ed è diventato chi è realmente. E non è poco.

Anzi, forse, è tutto.”